Cosa vuol dire veramente curare
Perché sei un essere speciale
Ed io avrò cura di te
Io sì, che avrò cura di te
E’ facile lasciarsi commuovere dai versi della famosa canzone di Franco Battiato.
Avere cura, avere caro, avere a cuore, il “curato”, la “curia”, il curione (qui curabat sacra), e, in negativo, il tras-curare (lett. curare passando attraverso, veloci, senza fermarsi), l’in-curia (privato di cura) etc…
L’etimologia è incerta: anticamente è stata collegata a cuore: quia cor urat (che scalda/brucia il cuore, la fiamma che viene dal cuore).
Meno fantasioso pare sia il collegamento ad una radice indoeuropea ku-kau, col significato di “osservare, guardare, stare attento” (da cui il latino: cavere, cautus)
Sento gli avversi Numi,
e le secrete Cure che al viver tuo furon tempesta
U. Foscolo
L’uomo è l’unico essere vivente che può decidere se, quando e in che modo prendersi cura di qualcosa o qualcuno.
Ognuno di noi ha le sue preferenze… e il cuore non si colma mai, c’è sempre spazio per nuovi amori, per nuove cure da ricevere e da dare.
Per Martin Heidegger la cura (Sorge) è una dimensione fondamentale dell’Essere, costantemente proteso verso qualcosa.
Spesso questo termine viene usato in ambito medico: assumere la cura per, prendere in cura… talvolta gli attribuiamo lo stesso significato di terapia (dal greco Θεραπεία: che comunque indica l’atto di servire dopo aver ascoltato).
E’ interessante notare come entrambi i termini siano etimologicamente lontani sia dallo strumento usato per curare (ad es. i farmaci) che dall’esito (guarigione/aggravamento della situazione).
Le parole esprimono il vissuto della società che le crea e le modella: attualmente, con la visione sempre più meccanicista della vita umana, la malattia che possiamo guarire (guarigione deriva dalla stessa radice della parola guerra: combattere per la salus/salvezza) è qualcosa che accade (=cade proprio lì), che avviene a prescindere da me, è esterna: è la sofferenza dell’uomo (paziente) che, in quanto tale, passivamente deve attendere la soluzione da una cura, esterna anch’essa.
Non diciamo “mi è venuta, ad es., la gastrite?” Allora un antiacido, che attualmente è spesso un inibitore di pompa protonica, arriva con un fascino quasi futurista e rimedia al danno. O un antibiotico, se è un batterio ad aver causato la flogosi… o entrambi, per stare tranquilli.
Dal momento che è esterna la malattia, portiamo all’esterno anche la cura. I risultati sono statisticamente buoni, la malattia è stata curata (il paziente un po’ meno). Non serve infatti, e non c’è tempo per, comprendere come mai quel batterio sia riuscito a superare le difese. “Ma si che lo so: è quest’ansia che mi viene, a bucarmi lo stomaco. Per fortuna che ci sono gli ansiolitici, quelli leggeri…“.
Basta una parola per tirare fuori l’arma opportuna.
Ma questo è lavorare sempre in emergenza, non è, in fondo, veramente, “curare”.
In inglese dalla stessa radice abbiamo il termine “to care” che indica curare nel senso di aver a cuore. Mentre guarire si dice “to heal”: da “to make whole” rendere di nuovo intero, sanare, e spesso ha un’accezione sacra.
Il to care è divenuto to cure.
E il bello è che servono entrambi.
Contemporaneamente.
Quando riceviamo un trattamento sanitario (di qualunque genere) stiamo ricevendo una cura? E il sanitario (medici e personale) che prende in cura un paziente vuole “prendersi cura” di lui?
Personalmente non ricordo di aver conosciuto un solo infermiere o medico, o un portantino, un terapista… un sanitario insomma, che non volesse sinceramente prendersi cura di ogni paziente.
Per la stragrande maggioranza il desiderio di lenire le sofferenze del prossimo è stato il motore che li ha sostenuti in tutto il loro difficile percorso formativo e lavorativo.
Ci sono però tre forze gigantesche che lavorano costantemente nella direzione della disumanizzazione della cura, del tecnicismo:
(in ordine crescente di rilevanza sulla popolazione)
Non è facile per l’uomo, che sia paziente o medico, rimanere umano.
Tuttavia qualcosa è possibile, per ciascuno di noi, per me e per te, ogni giorno: sapere che la guarigione parte dal di dentro, dal cogliere il messaggio, dal rispondere con cura: seguire le terapie è molto utile, ma non sufficiente.
Medice, cura te ipsum
Cura verso di noi, prima di tutto.
Poi verso tutto ciò che ci circonda: sarà poco, ma l’esercizio di fare ogni cosa con amore, per il piacere di farlo, non per un assurdo e preconcetto senso del dovere; l’abitudine a prenderci cura di chi ci sta intorno e attende da noi quell’attenzione che solo noi possiamo dare: animale domestico, piante, cose, persone; il lasciare un posto, un ambiente o un gruppo in migliori condizioni rispetto a quando lo abbiamo incontrato nel nostro cammino… piccole cose che manterranno vivo il ricordo di chi siamo, ci consentiranno di non dimenticarci che occorre sempre impegno per “tornare umani” come dice Susanna Tamaro nella sua ultima fatica letteraria.
Cosa ci farà capire che stiamo sulla strada giusta?
Come sempre: il piacere nel farlo.
E come capire se stiamo ricevendo (o fornendo) la cura giusta?
Se il “potere” del sofferente aumenta.
Per quanto mi riguarda ho individuato, nell’attualità sempre in divenire, il seguente campo di azione: comprensione profonda, attraverso tutti gli strumenti a mia disposizione, delle modalità in cui l’unità della persona che ho di fronte si manifesta in ogni cellula, in ogni relazione, in ogni azione o accadimento. Solo successivamente prescrizione adeguata, generalmente (ma non sempre e non solo) secondo la metodologia Omeopatica Classica, del rimedio opportuno, seguendo poi il paziente nella sua evoluzione fisica e interiore. E ripetere…
Più in generale penso che cura voglia dire accompagnare il paziente nella possibilità di comprendere il senso di quella situazione, esplorare le possibilità terapeutiche o affrontarne, talora succede, la possibile debolezza.
La rete di ormoni e neuromediatori mostra come un pensiero può creare la materia.
Dobbiamo deciderci a evitare di lavorare in emergenza.
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