Ho appreso l’amore per la medicina quale possibilità di aiuto verso l’essere umano sofferente da mio padre, ginecologo, romano dagli anni ’50. I suoi racconti non erano mai “casi clinici” ma storie in cui l’individualità del paziente, della madre e del bambino nascente, era sempre il punto di massimo risalto, ciò che decideva di una terapia anche in emergenza, ciò che faceva della medicina un’arte ben radicata su una scienza.
Mi ha trasmesso queste due anime perfino nel nome, come spesso avviene ancora nelle famiglie di stirpe borbonica: un nome ufficiale, per lo Stato, per la razionalità (Antonia, ancora più severo di quello di sua madre) e uno per la creatività, per la famiglia, per la libertà (Antonella).
Non avevo neanche sei anni, stavo imparando a leggere su uno dei due libri, gli unici, nella cartella degli scolari del tempo: il libro di lettura e il sussidiario. Leggevo a voce alta un brano che raccontava come il giorno del Giudizio un Angelo all’ingresso del Paradiso, guardando le mani degli uomini, si inchinasse vedendone le callosità. Mio padre istintivamente guardò le sue, curatissime come tutta la sua persona. Io capii al volo, e gli dissi: “si inchinerà anche per te, vedendo le mani che hanno fatto nascere tanti bimbi!”. Ricordo ancora oggi i suoi occhi brillare inumiditi.
Era questo che volevo, aiutare me e gli altri a ri-nascere ogni volta che una difficoltà veniva superata, studiare, conoscere per comunicare, in diverse lingue. Scelsi il liceo classico per amore infinito verso il latino, che sentivo come lingua madre, e per poter studiare il greco: volevo andare alle radici delle nostre parole, e scriverle con quel bellissimo alfa-beto, magari con una penna stilografica particolare (è una mia passione da sempre). Tedesco da bambina, poi inglese, spagnolo, francese… ogni volta comprendevo concetti diversi senza che traducessi, mi capitava spesso di sognare in altre lingue o di non ricordare se avessi letto un libro in versione originale o meno.
“Perché medicina?” mi dicevano gli insegnanti. “Devi scrivere, studiare facoltà umanistiche o lingue…” invece scelsi di pancia. Appena iscritta, il fratello di una mia amica mi invitò a partecipare ad un convegno della neo-nata PNEI. Ancora non sapevo cosa volesse dire Psico-Neuro-Immuno-Endocrinologia, ma capii che lì, nello studio della comunicazione, dei pattern che la natura misteriosamente riproduce, delle relazioni, della rete di connessioni, era la mia strada. Sempre con lo sguardo attento sull’irripetibile persona che avevo di fronte, unità inscindibile di Corpo, Mente, Cuore e Anima.
Da lì un percorso particolare e difficilmente spiegabile, ma che non cambierei a tutt’oggi: endocrinologia, omeopatia, agopuntura, psicoterapia dinamica (ancora in fieri), dietetiche mediche, Qi Gong, Yoga e chissà cosa, forse, ancora. Con particolare commozione ricordo la mia tesi in Medicina Tradizionale Cinese: uno studio di Embriologia Energetica, come cioè l’incredibile sviluppo dell’embrione, sin dal suo stato di zigote (cellula unica già contenente le informazioni necessarie per tutta la vita) si sviluppi seguendo vettori di forze misteriosi e affascinanti che sono esattamente i meridiani riscontrabili nell’adulto. Forze magiche, invisibili e poderose che come con una pasta, come Dio con la creta della Genesi, hanno modellato me, e te, sotto al cuore di nostra madre. E,con lo sviluppo degli organi, prendevano forma le emozioni e la Consapevolezza.
Ma studi e titoli non dicono niente: non so nulla, so solo di contemplare un pezzettino di realtà e da un angolo di visuale che non esaurisce, minimamente, la verità. So che spesso mi sbaglio, e correggersi vuol dire andare avanti. So che la verità nella sua interezza è inconoscibile all’essere umano: forse, talvolta, è percepibile con altri sensi ai quali la Fede (cioè la consapevolezza di essere altro che sola materia) apre la porta.
Quindi non posso aiutare chi delega completamente la cura a qualcosa che dall’esterno possa guarire, chi vincola se stesso e gli altri in giudizi che rassicurano (perché danno l’illusione di sapere) ma impoveriscono, a dir poco, ogni possibilità di conoscenza e relazione.
Posso però accompagnare un paziente in un percorso evolutivo per entrambi, radicato nelle conoscenze scientifiche attuali, sostenuto da rimedi terapeutici, farmacologici e chirurgici che si ritengano opportuni.
Dalla stessa nascita in poi, ci sono alcuni momenti in cui dobbiamo affidarci interamente ad altri, e infinita è la gratitudine nei loro confronti: salvano la nostra vita prendendola tra le loro mani e donandocela poi di nuovo. Più spesso però ci troviamo di fronte a responsabilità apparentemente più piccole: ascoltarci o meno. Capire quel malessere, talora vago, che avvertiamo, o scegliere di ignorarlo, costringendo il problema a “fare la voce grossa”.
Mai penserei di avere la soluzione a tutto.
Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. (Ecclesiaste, cap. III- primo verso).
E io so di poter occupare lo spazio di un momento di ascolto, di aiuto, di condivisione, di terapia con i pazienti, anzi sento come dovere il non rifiutarmi di dare quel pochissimo che ho.
“Tu curi i sani! – mi rimproverò con sdegno un collega chirurgo – se avessero veramente qualcosa che non va sarebbero da me, sul tavolo operatorio!”
Avvertii immediatamente pieno accordo con le sue parole, e mi rallegrai nel profondo al pensiero che il mio compito fosse quello, meraviglioso, di aiutare coloro che stanno in piedi a non cadere (1 Cor X, 12), anzi a correre con più libertà.
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